E’ difficile immaginare la vita di un bambino malato e della sua famiglia, dolore rabbia e fatica.
Ci sono storie che non si vorrebbe mai leggere.
Quando, a volte spinti dalla necessità, le si scopre si apprezza immensamente la tenacia di chi le ha volute e la dedizione di chi le ha scritte.
Sarah Frasca e Gabriele Carabelli, tecnici di radioterapia pediatrica all’Istitutuo Nazionale dei Tumori di Milano, sono stati a contatto quotidianamente con bambini che dovevano affrontare la radioterapia, di per sé indolore ma fonte di grande spavento tanto da rendere necessario, talvolta, sedare i piccoli pazienti.
Grazie alla loro disponibilità, alla dolcezza dell’autrice Emanuela Nava e alla Fondazione Cleme, è stato pubblicato nel 2010 da Carthusia il cartaceo Il gatto che aveva perso la coda.
Protagonista dell’albo, illustrato da Annalisa Beghelli, e “dedicato a tutti i bambini coraggiosi (anche a quelli che non sanno di esserlo)” è un gattino che deve andare In Capo al Mondo, indossare un casco ed entrare in una Capsula Ultraspaziale, restare immobile e lasciarsi trasportare…per partire alla ricerca della coda smarrita, non serve la spada ma il coraggio!
L’enfasi della storia è sull’essere piccolo del gatto, sui suoi tremori di fronte alle incognite del viaggio e sul possesso del casco, un casco da eroe spaziale! Elementi non lasciati al caso, voluti e ripetuti per dare ai giovani pazienti un codice leggero ed empatico per vivere le tappe della terapia senza parlare direttamente di malattia.
Il micio torna dal suo viaggio con una bella coda da tigre e un cuore da leone.
La terapia cambia le persone in ogni senso; questa storia è generosa nell’aiutare a superare difficoltà e cambiamenti ed è uno strumento, per operatori e genitori, per allontanare dal linguaggio tecnico e trovare un modo nuovo per trasmettere un approccio non spaventoso.
Sulle stesse attente premesse si basa la storia interattiva, disponibile su appStore e Google play, Leonardo e Gioconda: missione ricarica, ideata e illustrata da Simone Frasca, una app gratuita, voluta e promossa dalla Fondazione Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze.
Se ne sentiva il bisogno? Si. Tutti hanno paura di ciò che non conoscono e, se da una parte è vero che i bambini hanno meno strumenti per comprendere la malattia e gli esami diagnostici utili per accertamenti importanti, è anche vero che una storia semplice e ben raccontata può alleviare e stemperare la tensione.
Una storia che, proposta ai bambini in un device, li aggancia in modo immediato facendoli sentire, forse, più vicini alla tecnologia della grande macchina per la risonanza magnetica. Due tecnologie accostate, il grande macchinario sconosciuto e il piccolo tablet. Non inducono entrambe una forma di curiosità agli occhi dei bambini?
E’ su questi aspetti che, a me sembra, abbia lavorato Simone Frasca, sul rendere più familiare, anche attraverso un supporto tecnologico, la tecnologia per la diagnosi…quel grande misterioso tunnel.
I suoi personaggi sono super-bambini, gentili e rassicuranti, e fanno ciò che qualsiasi bambino – a maggior ragione se colpito da una patologia – vorrebbe fare. Vanno, partono, viaggiano, scoprono, vagano, sfrecciano indaffarati nella galassia, che sia con le gambe o con la fantasia.
Le vivaci scorribande nello spazio a suon di musica consumano energia ed è quindi il momento di affiancarli per riportarli alla base al Reparto Risonanza Magnetica per la ricarica, a bordo di un maggiolino blu a fiori.
Al touch ci si fa largo tra mucche pezzate in modo fantasioso, poi cambia la scenografia e si entra in un acquario alla ricerca di un gigantesco diamante tra banchi di piccoli pesci che al touch cambiano direzione, tra il pesce palla che si gonfia e il touch sul pesce pagliaccio per proseguire l’avventura.
Ci sono ancora da oliare le viti per far spalancare le fauci del temibile pesce di Ferro.
In lontananza finalmente si vede l’Istituto, Leonardo sorride, lo si fa scivolare nel tunnel per la ricarica, lui resta fermo e gli si infilano anche cuffie.
I bambini malati hanno bisogno di tanto coraggio: queste storie forse ne danno un po’.